mercoledì 11 dicembre 2013

INTERNO NOTTE






La seconda volta metà ci sorprende e metà ci si abitua, convivere con spavento e dolore, prendere e partire, ancora, dalla mia casa piccola e amica alla sua casa  rispettabile, fredda, si entra bussando, come se si fosse in visita. ’Mi  manca il respiro ‘ e via, un’altra volta al  Pronto Soccorso del grande Ospedale tra bancarelle di Natale e i vagabondi randagi del metrò, odore impersonale di ammoniaca e routine, Accettazione, ‘Come si chiama, dove le fa male?’ La paziente è lucida e persa tra prelievi e TAC, mi sembra piccola, come di vetro, cristallino e durissimo, non può parlare ma guarda tutti con gli occhi miopi di uno scienziato che scruta l’intero reparto, domina noi, che aspettiamo con la sua tessera sanitaria e il trolley grigio preparato da sempre, ci si convive con la morte, tra il comodino e le sue belle rose, le cura da anni con amore, e mi biasima sempre…Distolgo lo sguardo, osservo gli altri, il Pronto Soccorso è un porto di mare, chi va, tra sollievo e impegnative e chi viene, occhi sbarrati, volti pallidi avvoltolati nelle coperte termiche delle lettighe di acciaio. Si gela a Milano la sera, in ospedale fa caldo ma fredda è la paura sospesa di chi porta mogli, mariti, vecchi, varia umanità, nel gabbiotto tutto vetri, il medico di guardia valuta l’urgenza del caso, codice verde giallo, rosso fuoco, si emigra nell’altra stanza  per essere visitati, punzecchiati, auscultati, monitorati  senza dignità, è normale per un medico sapere la causa del male fisico di un ammalato, se possibile curarlo, ma vedere un essere umano, nudo, con fili, sonde, siringhe, è straniante per chi lo vede e aspetta in silenzio cercando un appoggio precario nella stanza d’aspetto. Scopro che ci sono pochi infermieri e ancora meno medici, tempo di crisi, mia madre dovrebbe fare un’ ecografia ma hanno chiuso il reparto, la portano in un altro ospedale,  alle due del mattino sono uscita cercando alla macchinetta un caffè amarissimo e ho visto interi edifici sventrati per rifarli nuovi e funzionali, ma da anni stanno lì, assi e scheletri senza anima, hanno scavato tutto, un buco ‘in fieri’. In milanese si dice che un’opera è come ’la fabbrica del Duomo ‘, infinito, costoso e inconcludente, a scapito di tutti noi, di me che vedo l’andirivieni delle ambulanze, infarti in atto, incidenti stradali, un ragazzino’ fatto’ e chi non ha nulla e nessuno, entra cercando un riparo per la notte, poi si vedrà. Ciondolavo sulla sedia quando mi hanno chiamato, mia madre rimane lì tra gli altri pazienti nella Sala Osservazione, ha tanti anni e poco potassio, le hanno fatto male le pillole per la pressione, la dimettono il giorno dopo, intanto dorme protetta; io esco che è quasi mattino con la voglia folle di parlare con qualcuno, due parole, un sorriso, uno sguardo complice, un cenno della mano, ora, subito voglio la folle voglia della vita.