La seconda volta metà ci sorprende e metà ci si abitua,
convivere con spavento e dolore, prendere e partire, ancora, dalla mia casa piccola
e amica alla sua casa rispettabile,
fredda, si entra bussando, come se si fosse in visita. ’Mi manca il respiro ‘ e via, un’altra volta al Pronto Soccorso del grande Ospedale tra
bancarelle di Natale e i vagabondi randagi del metrò, odore impersonale di
ammoniaca e routine, Accettazione, ‘Come si chiama, dove le fa male?’ La
paziente è lucida e persa tra prelievi e TAC, mi sembra piccola, come di vetro,
cristallino e durissimo, non può parlare ma guarda tutti con gli occhi miopi di
uno scienziato che scruta l’intero reparto, domina noi, che aspettiamo con la
sua tessera sanitaria e il trolley grigio preparato da sempre, ci si convive
con la morte, tra il comodino e le sue belle rose, le cura da anni con amore, e
mi biasima sempre…Distolgo lo sguardo, osservo gli altri, il Pronto Soccorso è
un porto di mare, chi va, tra sollievo e impegnative e chi viene, occhi
sbarrati, volti pallidi avvoltolati nelle coperte termiche delle lettighe di
acciaio. Si gela a Milano la sera, in ospedale fa caldo ma fredda è la paura
sospesa di chi porta mogli, mariti, vecchi, varia umanità, nel gabbiotto tutto
vetri, il medico di guardia valuta l’urgenza del caso, codice verde giallo, rosso
fuoco, si emigra nell’altra stanza per
essere visitati, punzecchiati, auscultati, monitorati senza dignità, è normale per un medico sapere
la causa del male fisico di un ammalato, se possibile curarlo, ma vedere un
essere umano, nudo, con fili, sonde, siringhe, è straniante per chi lo vede e
aspetta in silenzio cercando un appoggio precario nella stanza d’aspetto. Scopro
che ci sono pochi infermieri e ancora meno medici, tempo di crisi, mia madre
dovrebbe fare un’ ecografia ma hanno chiuso il reparto, la portano in un altro
ospedale, alle due del mattino sono
uscita cercando alla macchinetta un caffè amarissimo e ho visto interi edifici
sventrati per rifarli nuovi e funzionali, ma da anni stanno lì, assi e
scheletri senza anima, hanno scavato tutto, un buco ‘in fieri’. In milanese si
dice che un’opera è come ’la fabbrica del Duomo ‘, infinito, costoso e
inconcludente, a scapito di tutti noi, di me che vedo l’andirivieni delle
ambulanze, infarti in atto, incidenti stradali, un ragazzino’ fatto’ e chi non
ha nulla e nessuno, entra cercando un riparo per la notte, poi si vedrà.
Ciondolavo sulla sedia quando mi hanno chiamato, mia madre rimane lì tra gli
altri pazienti nella Sala Osservazione, ha tanti anni e poco potassio, le hanno
fatto male le pillole per la pressione, la dimettono il giorno dopo, intanto
dorme protetta; io esco che è quasi mattino con la voglia folle di parlare con
qualcuno, due parole, un sorriso, uno sguardo complice, un cenno della mano,
ora, subito voglio la folle voglia della vita.
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