Ho
la febbre. Mi è venuta all’improvviso, tra le ultime ore di scuola e impegni
vari, non avevo niente, e poi, caldo, freddo, caldo, voglia di scappare via a
letto, un’aspirina e amen. Ma non si può, ho finito un racconto per un
concorso, devo consegnarlo in una libreria lontana, è l’ultimo giorno per
portarlo e zero voglia di sentir dire ‘è troppo lungo, corto, non fa ridere, mi
dica, lei non ha agganci con qualcuno, vero? Capisco, dia pure a me…’ Eppure si
va, Milano è in buona, cioè non c’è il sole, ma si sopravvive tra ragazzi che rotolano
da un istituto qui vicino, vecchio e cade a pezzi, insicuro, con scale
fatiscenti… aspettando il tram penso che è un ‘bene pubblico’, io lavoro, a
gocce, in una scuola privata, linda e ordinata, sopra gli specchi di efficienza
e cordialità organica finto personale c’è il niente sotto, di contatto umano e
cognizione completa di sé, si mira solo a studiare a memoria e non domandare,
nel crollo morale dei tempi fragili i nostri ragazzi annegano, e non lo sanno…
perdonatemi, ho la febbre, straparlo, e finiamola lì. Guardo le pagine del
giornale lasciato lì sulla pensilina del tram, solite cose, la ’manovrina’,
sembra un abito liso, da ricucire più volte a chi è ‘oversize’, si rattoppa e
si rompe da tutte le parti, comprarlo nuovo non è cosa, e quindi si cammina,
con una mano di qua e una di là, con la dignità intercambiabile di ministri che
si offendono, dibattono, propongono ma sono sempre lì, non si schiodano, operai
della politica o trapezisti sul filo che, comunque cadono sempre in piedi…ho la
febbre, passerà, abbiate pazienza. Lascio il racconto in quadruplice copia
manoscritta – ma non era meglio Word e stampante, una volta tanto? Oh, l’odore
di carta ‘fatta a mano’, vuoi mettere - vado a casa, con gente incolore e indifferente,
pensa a cosa mettere in tavola, un
taglio nuovo ai capelli, non a Lampedusa, agli sbarchi continui, ai morti
anonimi nascosti in fretta e in silenzio, al funerale d’obbligo senza una vera
lacrima, vernissage di disperati per tutte le stagioni, tende d’accoglienza che
scoppiano, i cessi neri, sbarrati, occhi di dolore in mezzo al mare ostile, disarmonia stridente con la facce neutre e
tranquille di una città in bilico tra consapevolezza e follia… ma è la febbre, sempre
la febbre, un’ aspra , spiacevole influenza dei miei pensieri , difficile da
domare.
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